Prosa, Le nostre letture

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Bollicina
view post Posted on 9/8/2010, 12:49 by: Bollicina




Non sono mai stata fanatica di Gabriele D'Annunzio, probabilmente lo stimo più come poeta che come romanziere. Ma c'è un pezzo de "Il fuoco" che ho letto durante la preparazione dell'esame di storia della musica (l'argomento del corso era la cultura musicale di Eleonora Duse) che ho apprezzato tantissimo, quindi ve lo posto qui. Il personaggio che parla è Foscarina, per la quale D'Annunzio si è ispirato proprio ad Eleonora Duse. L'estratto è piuttosto lungo, se vi annoiate a leggerlo tutto passate pure oltre! :;-):

-Entrammo a Verona una sera di maggio, per la porta del Palio. L'ansietà mi soffocava. Mi stringevo contro il cuore il quaderno dove avevo trascritta di mio pugno la parte di Giulietta e ripetevo in me le parole del primo apparire: "Chi mi chiama? Eccomi. Qual è la volontà vostra?". La mia imaginazione era sconvolta da una strana congiuntura: compivo quel giorno quattordici anni, l'età di Giulietta! Il cinguettio della nutrice mi risonava negli orecchi; e a poco a poco il mio destino si confondeva con quello della Veronese. Al canto d'ogni via credevo di vedermi venire incontro un corteo che accompagnasse un feretro coperto di rose bianche. Come scorsi le Arche degli Scaligeri chiuse dalle maglie di ferro, gridai a mia madre: -Ecco la tomba di Giulietta!- E scoppiai in un pianto dirotto, ed ebbi un desiderio disperato di amare e di morire. "O tu che troppo presto vidi senza conoscerti e conobbi troppo tardi!" [...] Io fui Giulietta. [...] Una domenica di maggio, nell'immensa Arena, nell'anfiteatro antico, sotto il cielo aperto, dinanzi a una moltitudine di popolani che avevano respirato nella leggenda di amore di morte, io fui Giulietta. Nessun fremito delle platee, più vibranti, nessun clamore, nessun trionfo valse mai per me l'ebrezza e la pienezza di quella grande ora. Veramente, quando udii Romeo dire: "Ah, ella insegna alle torce ardere...", veramente io mi accesi, mi feci di fiamma. Avevo comprato col mio gruzzolo nella Piazza delle Erbe, sotto la fontana di Madonna Verona, un gran fascio di rose. Le rose furono il mio solo ornamento. Le mescolai alle mie parole, ai miei gesti, ad ogni mia attitudine: ne lasciai cadere una ai piedi di Romeo quando c'incontrammo, ne sfogliai una sul capo dal balcone, e di tutte ricopersi alla fine il suo cadavere nel sepolcro. Il profumo l'aria e la luce mi rapivano. Le parole scorrevano con una strana facilità, quasi involontarie, come nel delirio, e le udivo accompagnate dal rombo continuo delle mie vene. Vedevo il vaso profondo dell'anfiteatro metà al sole, metà all'ombra, e nella parte illuminata un luccichìo come di mille e mille occhi. Il giorno era quieto come oggi. Non un soffio muoveva le pieghe della mia veste o i miei capelli, che rabbrividivano sul mio collo nudo. Il cielo era lontanissimo e tuttavia mi pareva a quando a quando che le più deboli parole vi risonassero fino al'estrema lontananza come tuoni, o che il suo azzurro si facesse così cupo ch'io ne fossi colorata come da un'acqua marina ove m'annegassi. E i miei occhi andavano a ogni tratto verso le lunghe erbe che sorgevano alla sommità delle muraglie; e mi pareva che mi venisse da loro non so qual consentimento a quel che dicevo e facevo; e, quando le vidi ondeggiare al primo soffio del vento che si levava su le colline, sentii crescere la mia animazione e la forza del mio respiro. Come parlai dell'usignuolo e dell'allodola! Mille volte avevo udito l'uno e l'altra nelle campagne: conoscevo tutte le loro melodie del bosco, del prato, della nuvola; le avevo negli orecchi vive e selvagge. Ogni parola, prima di uscire dalle mie labbra, pareva passare a traverso tutto il calore del mio sangue. Non v'era fibra di me che non desse un suono all'armonia. Ah, la grazia, lo stato di grazia! Ogni volta che m'è dato di toccare il culmine della mia arte, ritrovo quell'indicibile abbandono. Fui Giulietta. "E' il giorno, è il giorno!" gridò il mio terrore. Il vento mi passava nei capelli. Sentivo lo straordinario silenzio in cui cadeva la mia lamentazione. Pareva che la folla fosse scomparsa sotterra: era muta su le gradinate ricurve, ormai tutta nell'ombra. Laggiù, la cima della muraglia rimaneva rovente. Io dicevo il terrore del giorno, ma veramente sentivo già "la maschera della notte" su la mia faccia. Romeo era disceso. Eravamo già morti, già entrati nel buio. Vi ricordate? "Ora che tu sei là, tu m'appari come un morto in fondo a un sepolcro. O i miei occhi m'ingannano, o tu sei tanto pallido..." Ero tutta di gelo, dicendo queste cose. I miei occhi cercarono il bagliore alla cima della muraglia: s'era spento. Il popolo s'agitava nell'Arena, chiedeva la morte; non voleva più ascoltare né la madre né la nutrice né il frate. Il fremito della sua impazienza accelerava i battiti del mio cuore intollerabilmente. La tragedia precipitava. Ho il ricordo di un gran cielo bianco come le perle, e di quel rumore quasi marino che si quetava al mio apparire, e della resina che odorava nella torcia, e delle rose che mi ricoprivano guaste dalla mia febbre, e d'un suono lontano di campane che faceva avvicinare il cielo, e di quel cielo che perdeva a poco a poco la luce come io perdevo la vita, e d'una stella, della prima stella che tremò nei miei occhi col mio pianto... Quando ricaddi sul corpo di Romeo, la folla urlò nell'ombra con tanta violenzxa ch'io mi sbigottii. Qualcuno mi sollevò, mi trasse verso quell'urlo. La torcia fu accostata al mio viso lacrimoso: crepitava forte e odorava di resina ed era rossa e nera, fumo e fiamma. Anche quella, come la stella, non la dimenticherò mai. E io certo dovevoa avere il colore della morte... Così, Stelio, una sera di maggio, fu mostrata al popolo di Verona Giulietta rediviva.
 
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